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Valori e assenza di valori in Occidente

1. La libertà, la guerra, le religioni

L’inarrestabile espansione del mercato internazionale continua ad avere dirompenti ripercussioni in ogni settore dell’esistenza sociale. In campo religioso, questo sconvolgimento provoca un duplice e contraddittorio fenomeno.

Si assiste, da un lato, ad un considerevole aumento di manifestazioni di integralismo religioso a carattere etnico, soprattutto in quei paesi in cui una rapidissima trasformazione economica ha determinato forti sommovimenti, contribuendo a fare dell’identità religiosa il nucleo costitutivo dell’identità sociale e individuale.

Dall’altro lato, specie nei paesi tecnologicamente più avanzati dell’Occidente, si va svolgendo un processo che segue due binari diversi: 1) l’aspirazione a una dimensione ecumenica dell’esperienza religiosa; 2) la corsa ad una forma esasperata di razionalismo economicistico e tecnicistico, in ragione del quale si verifica un impoverimento dei valori simbolici sia religiosi che non religiosi.

In Occidente, l’universo religioso cristiano presenta al suo interno una molteplicità significativa di voci e modi di rapportarsi al religiosamente altro.

Tra queste voci, un posto di rilievo occupa la prospettiva ecumenica sopra citata, che tenta di diluire i riferimenti teologico-dottrinali del Cristianesimo per rintracciare nell’anelito al trascendente, nella fede e nella preghiera il minimo comune denominatore di tutte le religioni.

Nella Chiesa cattolica la spinta all’ecumenismo ha trovato finora la sua più concreta espressione nella volontà di superare gli steccati confessionali tra cristiani cattolici, ortodossi e protestanti in nome della cosiddetta “unità di tutti i cristiani”.

Uno degli immediati risultati pratici del Concilio Vaticano II è stata proprio la revoca bilaterale delle scomuniche tra Chiesa cattolica e Chiesa ortodossa del 1965, scomuniche risalenti, per altro, all’anno 1054.

Contemporaneamente a ciò, un traguardo ambizioso è inseguito da tempo: la costruzione di un ponte interreligioso tra le tre grandi religioni monoteiste, Cristianesimo, Islam ed Ebraismo, fondato sul principio della “interfede”.

Il pontificato di Giovanni Paolo II è costellato di incontri e riunioni di preghiera con i rappresentanti delle varie chiese, unite a quella di Roma dalla comune fede in Cristo, ma anche, a partire dall’incontro di Assisi nel 1986 per la Giornata mondiale di preghiera per la pace, con gli esponenti delle altre due religioni di discendenza abramica.

Di fronte all’internazionalismo fondamentalista, della più varia matrice confessionale, di fronte ai pericoli di un irrigidimento nella “tradizione”, qualunque essa sia, il dialogo tra le chiese cristiane e il dialogo tra Cristianesimo, Islam e Ebraismo non può che essere visto con interesse e prudente sollievo anche da un laico, tanto più che il dialogo si accompagna ad una rilettura critica (molto cauta, per la verità) del passato della Chiesa cattolica e dei suoi comportamenti nei confronti della diversità religiosa.

Accanto a questo nascente “dialogo interreligioso” si situa la forte volontà della Chiesa cattolica di proporsi come unica guida morale nel mondo moderno, riconoscendo nelle lotte per la libertà e i diritti dell’uomo il messaggio di Cristo.

Sovente Giovanni Paolo II si è proposto difensore dei diritti umani, seppure il fondamento umano di questi diritti, la consapevolezza culturale dell’autonomia della persona umana assunta come valore-guida, senza fondamenti trascendenti, sia stato respinto a favore del fondamento sovrumano, che fa derivare la dignità della persona umana dal fatto di essere creata ad immagine di Dio e riscattata da Cristo.

La Chiesa cattolica, in un percorso inaugurato da Giovanni Paolo II e proseguito (finora quantomeno nelle intenzioni) da Benedetto XVI, si propone oggi come la voce più autorevole contro la politica della belligeranza permanente e dello scontro di civiltà, in conflitto aperto ma non dichiarato con i neoconservatori americani ed europei per accaparrarsi le ragioni etiche e morali della pace e della guerra.

Dall’esame di questi fenomeni è possibile arrivare ad una serie di conclusioni, sia pure provvisorie. Da una parte, i confini religiosi si vanno faticosamente allargando, e l’identificazione tra religione e Cristianesimo si configura come una realtà in via di essere superata.

Dall’altra parte, il tentativo dei pontefici cattolici di unire i credenti di ogni religione sotto un comune denominatore (l’anelito al trascendente e la preghiera), accettando, sembrerebbe, il riconoscimento di culture diverse come dignitose, nonché la volontà di farsi tutori della pace e dei diritti umani (e in particolare delle esigenze dei più umili), sottendono una guerra aperta e contraddittoria alla modernità, a quel “disincantamento del mondo” da cui e in cui i diritti umani sono nati, cresciuti e continuano a trarre alimento.

Nell’ecumenismo onnivoro della Chiesa cattolica sembrerebbe dunque esserci posto anche per i filosofi della modernità e dell’ateismo, ossia Montesquieu, Diderot e Voltaire, coloro i quali, cioè, hanno contribuito a definire in senso moderno i concetti di “libertà” e “diritto”.

Eppure nei confronti dei filosofi della modernità Karol Wojtyla e Joseph Ratzinger hanno avuto parole nette, ponendo addirittura alla radice del problema della iniquità del mondo il Cogito ergo sum cartesiano che ha principiato l’età moderna razionale e laica. Citiamo, tra i numerosi esempi che potremmo addurre, dal libro di Giovanni Paolo II Varcare la soglia della speranza:

“Perché metto pure qui in primo piano Cartesio? Non soltanto perché egli segna l’inizio di una nuova epoca nella storia del pensiero europeo, ma anche perché questo filosofo, che è certo tra i più grandi che la Francia abbia dato al mondo, ha inaugurato la grande svolta antropocentrica nella filosofia. ‘Penso, dunque sono’ […] è il motto del moderno razionalismo.

Tutto il razionalismo degli ultimi secoli – tanto nella sua espressione anglosassone quanto in quella continentale con il kantismo, l’hegelismo e la filosofia tedesca del XIX e XX secolo, fino a Husserl e Heidegger – può dirsi una continuazione e uno sviluppo delle posizioni cartesiane. […]

Se non è certo possibile addebitare al padre del razionalismo moderno l’allontanamento dal cristianesimo, è difficile non riconoscere che egli creò il clima in cui, nell’epoca moderna, tale allontanamento poté realizzarsi. Non si attuò subito, ma gradualmente.

In effetti, circa centocinquanta anni dopo Cartesio, constatiamo come tutto ciò che era essenzialmente cristiano nella tradizione del pensiero europeo sia già stato messo fra parentesi.

Siamo nel tempo in cui in Francia è protagonista l’illuminismo, una dottrina con la quale si ha la definitiva affermazione del puro razionalismo. La Rivoluzione francese, durante il Terrore, ha abbattuto gli altari dedicati a Cristo, ha buttato i crocifissi nelle strade, e ha invece introdotto il culto della dea Ragione.

In base al quale venivano proclamate la libertà, l’uguaglianza e la fratellanza. In questo modo il patrimonio spirituale, e in particolare quello morale, del cristianesimo era strappato dal suo fondamento evangelico, al quale è necessario riportarlo perché ritrovi la sua piena vitalità” (Giovanni Paolo II, Varcare la soglia della speranza, pp. 55-56).

In questa prospettiva, volta contro l’ateismo (e il razionalismo) “intrinseco” alla cultura occidentale moderna, il dialogo interreligioso è investito di una luce opaca e assume un nuovo aspetto: diventa il tentativo di indirizzare nei confronti del pensiero laico, equiparato surrettiziamente al tecnicismo razionalistico tipico del modus borghese e capitalistico, la responsabilità dell’iniquità attuale del mondo, della povertà di valori dell’Occidente contemporaneo, facendo derivare il tutto da quel processo di umanizzazione e scristianizzazione del reale cominciato in Europa nel XVIII secolo.

A tal fine il dialogo interreligioso, e soprattutto la politica perseguita dalla Chiesa cattolica, appare come un tentativo di re-incantare religiosamente l’Occidente, spostando l’asse della belligeranza non più nei confronti del religiosamente diverso, o nei confronti del modus comunista, ormai storicizzato come tentativo sbagliato e drammatico di riscatto dalla disumanizzazione capitalistica, ma nei confronti del non-religioso.

Stiamo assistendo, quindi, alla creazione di due nuovi blocchi tra loro volutamente contrapposti e in rapporto ambiguo con lo “scontro di civiltà” imposto in questi ultimi anni dalla cultura neo-liberista e neocons (Occidente democratico versus Islam terrorista): il nuovo scontro voluto dalla Chiesa cattolica, tutto in seno al mondo occidentale, è tra etica religiosa e nulla, tra valori religiosi e assenza di valori. In breve: i valori o sono religiosi o non sono.

2. Sguardo storico-religioso e umanesimo integrale

Il dialogo tra culture si può situare a vari livelli e può avere una profondità più o meno ampia: se tutte le forme di dialogo suscitano rispetto, non per questo esse sono tutte eguali. Sottrarre al dialogo interreligioso e interculturale perseguito dalla Chiesa cattolica l’esclusività etica ci sembra una priorità assoluta.

Il riconoscimento della pari dignità delle culture e, quindi, delle religioni, prodotti di cultura dotati di una irriducibile specificità, costituisce uno dei punti fermi dell’odierna coscienza umanistica, che si contrappone alle forme che furono proprie dell’umanesimo tradizionalmente inteso.

Per definire quest’ultimo occorre fare riferimento a Ernesto de Martino, storico delle religioni e antropologo culturale tra i più insigni del Novecento.

L’umanesimo tradizionalmente inteso fu l’espressione di una necessità che prese forma al tramonto del Medioevo: la necessità di allargare la consapevolezza culturale dell’Occidente oltre i confini della memoria cristiano-medievale, attraverso un ritorno diacronico all’antichità classica.

Tale allargamento, pur nella sua straordinaria importanza, fu interno alla storia occidentale e cominciò a rivelare i propri limiti al momento delle grandi scoperte geografiche, e dunque al momento dell’incontro tra l’umanità occidentale ed umanità aliene e sincroniche rispetto alla storia dell’Occidente.

Il compito che perdura ancora oggi è quello di ampliare l’orizzonte dell’umanesimo tradizionale, al fine di instaurare con l’altro rapporti intersoggettivi basati sul piano del rispetto reciproco. In questo senso l’ambito della religione è probabilmente il più complesso e delicato di tutti, in relazione al quale l’umanesimo contemporaneo è chiamato a dare prova della sua efficacia, vale a dire della capacità di affrontare i problemi in modo innovativo.

Tale nuovo umanesimo è edificato su una costruzione culturale relativamente recente: il considerare storicamente superata l’identificazione della religione con la religione dell’Occidente, il Cristianesimo, come se le religioni degli altri fossero soltanto tentativi più o meno riusciti, conati più o meno nobili, ma non sistemi compiutamente elaborati.

Questa presa di coscienza costituisce il presupposto per attuare un radicale mutamento di prospettive, e ciò non soltanto per ragioni teorico-speculative, ma anche per ragioni socio-culturali. Basti pensare, a questo riguardo, al fatto che l’attuale paesaggio europeo è caratterizzato dalle crescenti rivendicazioni al diritto alla diversità culturale e religiosa avanzate dalle comunità dei lavoratori immigrati.

In questo senso la prospettiva storico-religiosa, che si situa integralmente nel nuovo umanesimo, può rappresentare un punto di riferimento di portata generale.

Tale prospettiva non è irrispettosa nei confronti della religione in quanto tale, come avviene in molte espressioni del materialismo volgare, ma è irrispettosa, per così dire, del modo convenzionale ed eurocentrico di intendere la religione.

L’alternativa al tradizionale si traduce in un sistema coeso di punti fermi, le cui componenti essenziali sono: la valutazione di ogni religione come specifico prodotto storico partecipe del divenire delle singole civiltà; il riconoscimento della pari dignità culturale di tutte le formazioni religiose.

A ciò si aggiunga che lo sguardo storico-religioso è lo sguardo critico di chi si pone dall’esterno rispetto al fenomeno indagato. Tale sguardo è rivolto a percepire l’altro per quello che l’altro effettivamente è, facendo a meno di quelle mediazioni religiose volte a decodificare l’umanità dell’altro da sé, perché queste mediazioni necessariamente comportano l’implicita svalutazione dell’altro come soggetto di valore.

Uno sguardo diverso, dunque, da quello che appartiene a chi vive dall’interno il fenomeno religioso, a chi ne partecipa intimamente.

La temperie culturale che ha fatto da sfondo alla nascita della prospettiva in questione è quella in cui è maturata l’etnologia, la scienza dell’ethnos non occidentale tesa a comprendere altri modi di esistere secondo cultura: in breve, le ragioni culturali degli altri rispetto a noi occidentali.

Se la storia delle religioni, per rispondere alle esigenze di un sapere “allargato” ha dovuto preliminarmente mettere in discussione il concetto classico di religione per riformularlo ab imo, l’etnologia si è dovuta misurare con un compito non dissimile.

Ad essere messo in questione, in questo caso, è un altro concetto chiave, quello di cultura: il concetto tradizionale riflette una visione eurocentrica della realtà e, pertanto, pone una stretta correlazione tra la cultura come tale e la civiltà europea.

Al di fuori di quest’ultima, dunque, non c’è cultura, ma la sua antitesi, di cui emblema per eccellenza è la selva. Selva, selvaggi, uomini di natura, non uomini: il repertorio delle definizioni è vasto quantitativamente, anche se alla sua base non vi è che un solo principio di una brutale semplicità, quello dell’esclusione motivata dallo sfruttamento incontrollato.

Non è questa l’occasione per evocare le tappe del lungo e non sempre lineare processo che ha posto in crisi questo tipo di sistemazione, così aderente agli interessi dell’espansionismo coloniale, e, allo stesso tempo, ha creato le premesse di un altro tipo di sistemazione.

Basti dire che per aprirsi all’umanità extra-occidentale, con la consapevolezza piena che di umanità si tratta e non di sauvagerie, prima i filosofi e poi gli etnologi hanno dovuto operare sul concetto di cultura, ampliandone la portata, rivedendone la ragion d’essere profonda.

In questo modo si è finalmente capito che là dove non si voleva che non ci fosse altro che la selva, in realtà c’era cultura e che la differenza basilare non è quella che passa tra colti e incolti, uomini e non uomini o sottouomini, ma tra uomini partecipi di culture e di storie differenziate.

Non perdere la memoria di questa straordinaria vicenda, qui soltanto accennata, che ha prodotto un modo nuovo di prospettare le relazioni tra civiltà differenti è fondamentale.

Gli odierni problemi legati al fenomeno della multiculturalità possono essere affrontati a partire dai presupposti contenuti in tale vicenda, del resto tutt’altro che conclusa.

C’è un patrimonio di cultura cui fare riferimento in modo critico, per non rimanere smarriti e senza risorse di fronte all’estrema complessità del momento storico che ci è dato di attraversare.

Si è voluto schematicamente illustrare la prospettiva “storico-religiosa” con la piena consapevolezza che essa non è l’unica. Non si può che guardare con interesse ai fermenti, alle situazioni in movimento presenti in altri ambiti.

Queste note, per quanto parziali e lacunose, vogliono fornire la testimonianza di un travaglio, di una tensione interna al mondo religioso, stimolato a riflettere su se stesso dal problema della multiculturalità.

I segnali di cambiamento, più o meno forti che siano, non possono essere in alcun modo ignorati: essi meritano attenzione perché forniscono un contributo notevole ai fini della comprensione della realtà che stiamo vivendo.

Questo vale anche per chi ha scelto consapevolmente di percorrere un’altra strada: la strada dell’umanesimo integrale.

Il riconoscimento dell’origine e destinazione interamente umane dei beni culturali (tra i quali la religione occupa una posizione di rilievo) è il segno distintivo di tale umanesimo, nella cui prospettiva il dialogo con l’altro da sé, quale che sia la sua connotazione, si situa in una dimensione di totale libertà.

Ciò fa sì che l’incontro-confronto non conosca limitazioni di sorta.

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