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Suicidio ed Olocausto – Suicidi e movimenti messianici tra gli Inca all’epoca della Conquista

Uno degli aspetti meno conosciuti della storia sociale e religiosa degli indios del Perù è rappresentato dall’altissimo numero di suicidi (una vera e propria epidemia prolungata), che si verificarono nei cento anni successivi alla Conquista.

Nella breve Relazione (1557) di Damiàn de la Bandera si racconta come i nativi, privati dei loro beni e dei loro stessi figli, perseguitati dai curaca, e senza alcuna protezione di sorta, si abbandonavano ad uno stato di totale inazione, fino a morire d’inedia1.

Il fenomeno aumentò a tal punto col passare degli anni che nel 1582 lo stesso re Filippo Il inviò una cèdola all’arcivescovo di Lima per avere notizie più precise a riguardo2.

Molti studiosi identificano nei suicidi una delle principali cause della vertiginosa caduta demografica che vi fu in Perù tra il 1530 e il 1620: la popolazione autoctona scese dai sei milioni dei tempi precolombiani alle seicentomila unità degli inizi dei Seicento.

Mentre i funzionari della Corona erano pragmaticamente preoccupati per il diffondersi della mania suicida tra i nativi in quanto essa era considerata inopportuna dal punto di vista tributario e della manodopera da sfruttare, molti missionari ne furono realmente turbati.

Nell’intento di frenare il dilagare del fenomeno, il clero adottò gli stessi sistemi intimidatori che alcuni secoli prima aveva usato in Europa contro i membri della setta ereticale dei Catari, diffusasi tra il 1100 e il 1200 specie in Francia meridionale ed in Italia settentrionale.

I più radicali seguaci del movimento, i Perfetti, avevano quale massima aspirazione quella di abbandonare velocemente e in stato di purezza il mondo e, a tal fine, si davano spesso la morte praticando il digiuno totale.

La Chiesa aveva reagito molto duramente: in segno di spregio i corpi dei suicidi venivano trascinati per le strade dell’abitato e poi esposti ai crocicchi. In Perù la ritorsione fu ancora più drastica. I cadaveri, nudi, dopo essere stati fatti trascinare per il villaggio dai bambini, venivano bruciati sulla pubblica piazza al cospetto dei parenti.

Quanto gli autoctoni temessero la distruzione del loro corpo è bene esemplificato dal comportamento tenuto di fronte alla morte dall’imperatore inca AtahualIpa, catturato dagli spagnoli il 16 Novembre 1532 e assassinato il 26 Luglio 1533.

Quando AtahualIpa, accusato di “usurpazione, fratricidio, idolatria, poligamia e rivolta”, seppe di essere stato condannato al rogo, fu preso dal panico, si mise a piangere e chiese pietà senza ritegno, offrendo per la propria salvezza il doppio dell’oro e dell’argento che fino ad allora i suoi sudditi avevano versato ai conquistadores.

I missionari adottarono questi metodi poiché si erano resi presto conto che la religione incaica si fondava sul culto degli antenati. Anche dopo la cessazione delle funzioni vitali lo spirito della persona continuava a risiedere nel corpo, e pertanto bisognava fare tutto il possibile affinché la salma fosse preservata dalla decomposizione.

A tal fine i corpi mummificati degli antenati venivano conservati in grotte, o in tombe ipogee, situate sempre in luoghi molto appartati. Nella pratica il culto dei morti assicurava l’identita dei gruppi, forniva il paradigma per l’organizzazione sociale, spiegava e giustificava le relazioni tra i vari lignaggi e i rapporti di potere all’interno di essi.

I morti non erano mai veramente tali: i loro poteri andavano aumentando in diretta proporzione al numero dei loro discendenti e delle generazioni a loro posteriori, e suprema aspirazione degli individui era quella di divenire un giorno antenati potenti e venerati.

La “vera morte” interveniva solo con la distruzione del corpo ed era questa l’evenienza più temuta dagli autoctoni: lo spirito, privato della sua sede naturale e impossibilitato a ricevere il debito culto dai vivi, sarebbe stato condannato all’oblio e ad uno stato di perenne e inquieto vagabondaggio.

Molti storici si sono interrogati sulla natura dei suicidi nell’area andina. Il fenomeno è assai complesso, variamente articolato. L’autodistruzione svolge un’importante funzione axiopoietica (di creazione dei valori), e dunque di altissima rilevanza sociale.

Per gli Incas, suicidio ed olocausto in molte circostanze sono posti sullo stesso piano. Il suicida, così come la vittima sacrificale, è “redentore”, in quanto placa gli dei e riscatta gli uomini dal peccato, e “dio”, poiché vive in comunione con gli antenati.3

In pratica egli, col proprio gesto, si fa mediatore tra vivi e morti, tra passato e presente. Dal momento che esiste una continuità tra vivi e defunti, l’attività autodistruttiva degli indios è da porsi in diretto rapporto con una struttura sociale basata sul lignaggi, e questa è una rilevante analogia di con i culti millenaristici dell’epoca, imperniati sulla credenza di un’imminente ritorno dei morti.

Il fenomeno dei suicidi si originò in una situazione di gravissima disnomia sociale. Spesso il suicidio fu una sorta di reazione “omeostatica”4 provocata dall’anomia, ma volta ad annullarne positivamente le cause e gli effetti.

La maggior parte dei nativi suicidatisi, infatti, andavano incontro alla morte sorretti da un sistema di valori istituzionalizzato e profondamente radicato nella coscienza, e la loro determinazione era dettata da un elevato senso di responsabilità verso i propri simili e dal desiderio di assicurare a sé e alla propria gente un futuro diverso e migliore.

Tuttavia, per comprendere il fenomeno è necessario allontanarsi dal mero piano sociologico ed esaminare il sistema di valori e rappresentazioni collettive nonché le strutture logico-percettive che orientarono il comportamento degli autoctoni e determinarono certe loro precise scelte tra le mille possibili.

Come conseguenza della dura repressione del culto dei morti, si ebbero anche suicidi collettivi. Numerosi di questi si verificarono soprattutto in concomitanza delle periodiche esplosioni di furore mistico che caratterizzarono la reazione degli Incas di fronte al processo di acculturazione sociale, politica, economica e religiosa imposto dagli Spagnoli.

Molti suicidi erano dettati dalla convinzione dei nativi di compiere un gesto gradito ai loro dèi, un atto dal profondo significato religioso. Alla morte ci si arrivava dopo una serie di esperienze estatiche che nel suicidio trovavano la loro sublimazione.

L’autodistruzione era preceduta da allucinazioni e visioni oniriche in cui si materializzavano le divinità pagane che esortavano gli indios ad uccidersi affinché potessero raggiungerle nell’aldilà, rappresentato come luogo di felicità e di abbondanza.

Il suicidio diveniva così il mezzo per passare in una dimensione che si configurava come l’esatto contrario della realtà presente fatta di schiavitù, fame, pestilenza e morte. Con tale azione l’individuo ristabiliva quell’unità tra vivi e morti, tra passato e presente, posta in crisi dalla sistematica repressione spagnola e, più in generale, dal processo di destrutturazione in atto in tutti i livelli della società indigena.

Nel contesto andino esisteva quindi un notevole rapporto tra i suicidi e i culti millenaristici: i due fenomeni procedevano di pari passo, svolgevano le stesse funzioni e perseguivano gli stessi obiettivi. Erano due tipi di reazione sociale assolutamente omogenei, sovente complementari, originati da una medesima interpretazione della realtà.

Entrambi rappresentavano un tentativo coerente di arrestare la disintegrazione della società autoctona e di ricostruirne, partendo dagli stessi presupposti, il complesso di elementi che ne condizionava le strutture e ne regolava il funzionamento.

Avendo per scopo quello di accelerare l’avvento della nuova era, suicidio e culto di crisi traducevano la pura e semplice attesa escatologica in azione, e costituivano pertanto un notevole salto qualitativo della resistenza indigena.

L’azione, a sua volta, aveva senso solo nella misura in cui, creando valori, influenzava e modificava il modo di pensare. Così, paradossalmente, l’atto negativo per eccellenza, l’autodistruzione, svolgeva un ruolo di grande rilevanza nel generale movimento di ristrutturazione del mondo tradizionale, gravemente compresso dalla colonizzazione spagnola.

Il suicidio, ricomponendo in qualche misura l’ordine del cosmo, determinava una nuova condizione della coscienza incaica: rimossa una grave situazione di conflittualità interna, i nativi, attraverso una rinnovata consapevolezza di sé, della propria identità, dei proprio passato e del proprio destino, erano in grado di affrontare con maggiore risolutezza e incisività il mondo concreto, di dominarlo e superarlo.

Ciò che caratterizzò l’attività autodistruttiva degli indios fu quindi una particolare visione del mondo che giustificò e rese possibile l’autosacrificio di così tante persone per un periodo di tempo così prolungato.

1 D. de la Bandera, Relaciòn del orípen è gobierno gue tos Ingas tuverío (1557), in «Biblioteca Peruana», serie 1, vol. 111 (pp. 491-510), Lima 1968, p. 502.

2 Cédula sobre el maltrato v destrucciòn de los indios, in J. T. Polo, Apuntes sobre las epídemías en el Perù, in «Revista, Històrica», vol. V (pp. 50-109), Lima 1913, pp. 103-4, in M. Curatola, Suicidio e Olocausto: note sul comportamento autodistruttivo degli indios del Perù nel XVI e XVII secolo, in «Culture», 7-8, 1981, p. 18, p. 18.

3 M. Curatola, Suicidio e Olocausto: note sul comportamento autodistruttivo degli indios del Perù nel XVI e XVII secolo, cit., p. 28.

4 M. Curatola, Suicidio e Olocausto: note sul comportamento autodistruttivo degli indios del Perù nel XVI e XVII secolo, cit., p. 30.

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