Giudaismo e delazione

Il giudaismo e la delazione

Lo spunto per il presente articolo nasce dalle celebrazioni per il sessantesimo anniversario del massacro di civili perpetrato alle Fosse Ardeatine a Roma, il 24 marzo 1944, durante il secondo conflitto mondiale.

Questo eccidio colpì anche gli ebrei principalmente a causa dell’attività delatoria di una ragazza del ghetto romano, Celeste Di Porto, chiamata la Pantera Nera.

Il coinvolgimento degli ebrei romani non fu sola conseguenza diretta delle delazioni di Celeste; ella certamente ebbe un ruolo importante nell’arresto di molti ebrei, ma non mirato alla strage, visto che gli ebrei vennero prelevati dal carcere Regina Coeli e via Tasso o segnalati dal questore Caruso.

Non è facile trovare molto materiale sull’argomento specifico della delazione, sul modo con cui il giudaismo l’ha combattuta e come esso ha cercato di difendersi dalle conseguenze dell’operato dei delatori.

È un argomento su cui si incontra tutt’ora una certa resistenza: è ancora difficile ammettere che degli ebrei hanno tradito altri ebrei, si preferisce discutere più sui casi in cui individui di altre religioni, i gōyīm, hanno arrecato danni ad ebrei con le loro delazioni all’autorità di turno.

Il termine ‘delatore’ trova alcuni corrispondenti nella lingua ebraica. Il principale e il più usato è malshīn, dalle radicali l-sh-n che indicano il concetto di lingua, intesa sia come organo del corpo che linguaggio (lāshōn).

Quindi il predicato malshīn, che appartiene alla coniugazione verbale causativa hif‘īl, rende il concetto di ‘usare la lingua o il linguaggio’ per un certo scopo. Abbiamo anche il termine mōsēr che indica una persona che riferisce, consegna la notizia (dalle radicali ebraiche m-s-r = consegnare).

Più raramente troviamo il termine delātōr, chiaramente un latinismo, mutuato dall’italiano. Non è specificato però se la delazione consiste in una notizia vera sulle abitudini di un individuo o in una calunnia inventata per gettare discredito. In italiano nel primo caso useremmo ‘delatore’, nel secondo invece ‘calunniatore’.

Come si è regolato il giudaismo rispetto alla questione dei delatori che mettevano in pericolo la vita di un ebreo o la solidità della comunità israelita?

La delazione è un argomento scarsamente preso in considerazione dal Talmūd e dai saggi rabbini, sempre per la repulsione degli ebrei nell’affrontare la spinosa questione del ‘traditore nel seno della comunità’.

Un caso1  fu quello di un giudice, denunciato all’autorità per aver condotto un processo in modo illegale; egli successivamente condannò a morte il suo stesso denunciante. Il concetto prevalente era quello della difesa della propria vita e della propria reputazione.

Se qualcuno è pronto a uccidere, si deve fare di tutto per ucciderlo,2 così ci si salva anche se peccatori. Nello stesso spirito interpretativo3 s’ammettevano falsi giuramenti e promesse per salvare il proprio patrimonio dalle pretese dei malshīnīm.

Un altro trattato talmudico4 riteneva illecito salvare la vita di un delatore, così come era proibito salvare quella dell’ebreo apostata. Maimonide, il celebre legislatore sefardita del XII secolo, specificò meglio questo pensiero:5 è una buona azione lasciar perire il delatore portandolo nell’abisso della distruzione.

Infine il Talmūd6 riferisce di una condanna a morte eseguita nei confronti di un uomo parte di un processo che aveva minacciato di denunciare il convenuto: la corte ritenne fossero sufficienti l’intenzione dell’uomo e la necessità di evitare ulteriori danni.

Nella tradizione talmudica si accomunano i delatori e i derisori nell’unica punizione loro riservata: l’eterna pena del Gehinnom. Il tribunale religioso di Rabban Gamaliel ritenne opportuno prendere provvedimenti per arginare il numero crescente di delatori che, a suo avviso, minava la coesione del popolo ebraico anche dopo la distruzione del Secondo Tempio.

Si tratta del periodo delle persecuzioni adrianee, quando molti studenti e uomini pii rischiarono la vita per salvaguardare l’osservanza delle mitzwōt e lo studio della Tōrāh.

La delazione consisteva più precisamente nell’informare l’amministrazione romana su chi, tra gli ebrei, si opponesse attivamente all’autorità di Roma. Venne così aggiunta un’altra benedizione nella preghiera della ‘Amīdāh, la Birkat ha-Mīnīm il cui testo fu composto da Samuel ha-Qatan, un anatema da lanciare sui peccatori.

Tra i colpevoli di delazione di quel periodo, citiamo Yehudah ben Gerim: verso il 161 d.C egli denunciò il proprio maestro Shim‘on ben Yohai (ritenuto l’autore dello Zohar) che nutriva antipatie per i romani oppressori della Palestina.

Shim‘on avrebbe affermato che ogni miglioramento dell’economia apportato dalla dominazione romana consisteva nell’aprire nuovi spazi mercatali solo per sistemarvi le prostitute; ciò significava che le istituzioni dell’occupante servivano solo agli scopi dei romani, non degli ebrei.

Il governatore Varus non tardò a infliggere la condanna a morte a Shim‘on ma quest’ultimo fuggì con il figlio, nascondendosi in una caverna per dodici-tredici anni. Ne uscì dopo la morte dell’imperatore romano.7

In cosa consisteva concretamente la delazione punibile? Era passibile di processo e di condanna l’ebreo che fosse stato giudicato colpevole d’aver redatto una missiva riguardo un altro ebreo accusandolo di nascondere merce di contrabbando nel proprio negozio, di distillare alcolici senza l’autorizzazione amministrativa, di aver evaso il servizio militare o di vivere in luoghi dove agli ebrei era proibito risiedere.

C’erano anche casi di ebrei che ricattavano in modo sistematico i correligionari allo scopo di estorcere informazioni, denaro o per indurli a un certo comportamento sotto pressione psicologica.

Era anche severamente repressa la delazione di chi spargeva la voce che una comunità ebraica nascondesse dei gōyīm convertiti al giudaismo, che incoraggiasse la costituzione di sette segrete, oppure che raccogliesse denaro da inviare in Eretz Yisrā’ēl.

La halākhāh distingue tra denuncia di possesso di denaro e denuncia nei confronti di un altro individuo, basata su fatti reali o falsi, con o senza prove. Il reato consisteva quasi esclusivamente nella messa in pericolo di un altro ebreo o di una famiglia o della comunità ebraica.

Erano incluse anche le ipotesi di attentato all’onore e alla reputazione di una persona. Non contava molto per i saggi il fatto che la notizia oggetto di delazione fosse vera o falsa.

Anche se vera, la notizia poteva mettere in pericolo la vita di altri ebrei, ed era questo che si voleva reprimere. È una prova di familismo, della solidarietà inter-ebraica da salvaguardare e insegnare anche per garantire la continuità del giudaismo.

La punizione quindi era intesa come modo di espellere dal proprio interno chi non accettasse le regole sociali del gruppo. Difatti Maimonide affermava8 che non importava se un ebreo accusato fosse realmente colpevole o avesse arrecato del male al delatore ma era di rilievo che il delatore non avrebbe più potuto avere un posto all’interno della comunità ebraica per il solo fatto di aver ceduto alla tentazione della delazione, pur se parte offesa.

Sembra che una sola eccezione consistesse nel fatto che l’ebreo poteva, anzi vi era tenuto, denunciare il fatto d’essere a sua volta oggetto di delazione da parte d’un altro ebreo. Similmente alla lecita difesa per cui era possibile uccidere l’aggressore, una persona aveva facoltà di denunciare un aggressore in mancanza d’altri mezzi di difesa.

Sempre Maimonide aveva stabilito la liceità dell’uccisione dell’ebreo anche nei luoghi dove la pena di morte non era in uso.9 La condanna poteva essere valida persino prima che il delatore avesse compiuto il suo reato, ossia quando egli aveva semplicemente minacciato di rivolgersi all’autorità; in tal caso egli doveva essere ammonito a non compiere questo passo e la pena si applicava quando egli invece continuava nelle sue minacce.

Condannare a morte il delatore era considerato un obbligo religioso a carico della corte giudiziaria, una mitzwāh; nel caso in cui la corte non avesse ottemperato, essa sarebbe stata corresponsabile di ogni conseguenza nefasta derivante dal comportamento del delatore lasciato in vita.

Lo scopo era quello di reprimere il fenomeno della delazione e assicurare la coesione etnico-religiosa. Questa mitzwāh era tenuta in alta considerazione al punto che il rabbino e giudice Yosef ben Migash (1077-1141, di Lucena, Spagna) mandò a morte un delatore all’ora solenne della ne‘īlāh d’un giorno di Kippūr che cadeva di shabbāt.

Il colpevole aveva svelato informazioni riservate all’epoca del conflitto tra gli arabi andalusi e gli invasori almoravidi, i berberi che erano giunti in Spagna dal Marocco cercando di riportare l’islam alla purezza delle sue origini.10

Nella giurisprudenza si distinse successivamente tra il delatore meritevole di morte perchè poteva effettuare la delazione a danno di un ebreo e il delatore che aveva già compiuto l’atto e che quindi non era più passibile di morte perchè non più pericoloso, a meno che non avesse minacciato di reiterare l’azione.

Così la pena capitale assumeva un carattere repressivo anzichè punitivo. In altre situazioni invece l’obbligo di mandare a morte l’ebreo delatore non era più assoluto e irrinunciabile, ma era considerato il massimo della pena da infliggere, in una serie di punizioni che contemplava anche il taglio della lingua, l’estrazione degli occhi o l’amputazione di un arto, sempre in modo che il malfattore risultasse impossibilitato a realizzare il suo malvagio disegno.

Dei saggi però sentenziarono nei loro responsa che simili mutilazioni non erano sufficienti a evitare l’atto della delazione. Nei casi in cui il danno era solo economico, la punizione a carico del delatore era quasi sempre il herem, l’esilio seguito da scomunica, che colpiva anche persone che avevano peccato di omertà, cioè che non avevano denunciato dei delatori, pur essendo a conoscenza dei loro intenti.

La situazione nella Spagna e nel Portogallo medievali era abbastanza specifica, pur esistendo sempre un sentimento di antipatia o di odio verso il traditore della propria religione e della propria gente.

Nella penisola iberica, fino alla fine del Quattrocento, le comunità ebraiche erano state numerose e ricche. Gli ebrei erano influenti nell’economia e nella società iberiche, sia sotto la dominazione cristiana che musulmana.

Così la condanna a morte era ritenuta superflua, potendo la comunità basarsi sulla propria forza difensiva. In genere si obbligava il colpevole di tradimento a una multa e all’indennizzo della vittima della delazione. Altrettanto generalmente, veniva sottoposto al herem, all’esilio, al bando o al pentimento pubblico.

Quando il fenomeno della delazione raggiunse livelli preoccupanti, i musulmani concessero ai rabbini la possibilità di emettere sentenze penali a carico dei colpevoli, anche se ciò contrastava con le norme della dhimma, il patto di sottomissione all’islam.

Pian piano l’abitudine di conferire ai giudici ebrei ogni caso di calunnia fu confermata anche nei territori cristiani della parte settentrionale della penisola. Il fenomeno non conobbe sosta, anzi la maggior parte delle volte la delazione serviva ai soli immediati interessi finanziari del sovrano.

Nei paesi iberico-cristiani si adottava di solito il codice legale romano come modello e si garantiva un avvocato difensore che assistesse l’accusato. Nel caso il processo terminasse con una sentenza di morte, non era la comunità a eseguirla ma essa erogava una somma di denaro alla corona (500 solidi nel XIII secolo) affinchè fossero gli ufficiali del re ad eseguire la sentenza.

Questo è il tenore del privilegio concesso alla comunità ebraica di Barbastro nel 1273, e analogamente fu concesso agli ebrei di Catalogna e nelle Baleari il secolo successivo, dove però alla condanna a morte c’era l’alternativa dell’amputazione di un arto.

In Aragona fu sancito dai regolamenti delle comunità locali del 1354 che si doveva estirpare il male della delazione, specificando che il Signore proibisce qualsiasi attività che arrechi danno pubblico, alla collettività, mentre non si faceva menzione di quella privata, il pettegolezzo e la maldicenza espressi in privato, che non arrecavano danno alla struttura della comunità nel suo insieme.

Il sovrano aragonese Pietro IV ridusse i casi in cui gli ebrei di Barcellona potevano portare dinanzi al proprio tribunale un malshīn. Ma in seguito confermò la facoltà dei dayyānim e dei capi della comunità di giudicare e condannare il malshīn, di ordinarne l’esecuzione capitale o il taglio delle labbra.

Qualche tempo dopo, il famoso Hasdai Crescas fu incaricato nel 1390 da doña Violante de Bar, consorte del re aragonese Giovanni I, di occuparsi di ogni situazione implicante la delazione.

Egli quindi fu il solo giudice autorizzato in tutta l’Aragona e le prerogative dei capi della comunità ne risultarono ridimensionate. Era il periodo dei grandi massacri antigiudaici che nella penisola iberica provocarono un altissimo numero di morti.

Nello stesso periodo le Cortes castigliane abolirono il diritto degli ebrei di regolare da sé i casi di giustizia penale. L’intento era quello di eliminare ogni possibile causa di discordia tra ebrei e autorità centrale.11

Se la delazione riguardava un aspetto privato della persona denunciata, la comunità nel suo insieme non disponeva degli strumenti giudiziari riservati ai casi di interesse pubblico, come sancito dal congresso di dotti e rabbini convocato da Rabbenu Tam in Francia nel XII secolo.

Delle successive decisioni rabbiniche in Castiglia avevano regolato la questione delle punizioni da commisurare alla gravità del reato. Il privilegio fu restaurato dalle leggi di Valladolid nel 1432 per iniziativa di Abraham Benveniste, capo della comunità di Castiglia.

Si decise che un delatore la cui attività non aveva causato nessun danno andava punito con dieci giorni di carcere e cento ducati di multa. Altrimenti doveva anche ripristinare il patrimonio del danneggiato alla situazione ante factum. Se il destinatario della denuncia era un’autorità gōy, la multa e il periodo di carcere erano raddoppiati.

Se il danneggiato pativa un’ingiuria fisica, la pena era a discrezione del tribunale. Se i danneggiati erano numerosi, era previsto l’esilio dopo cento frustate ma più spesso il tribunale decretava la morte.

Se il testimone era uno solo e l’atto poteva causare seri pericoli alla comunità, i giudici di solito decidevano di marchiare la fronte del presunto delatore con un ferro rovente per fissarvi la parola malshīn.

La morte era sicura nel caso la delazione fosse stata ripetuta tre volte riguardo la stessa persona. Comune a tutti i tempi e tutte le giurisprudenze è l’impossibilità per un condannato per reato di delazione di prestare giuramento o di rendere testimonianza in altri processi.

Nel periodo medievale la situazione degli ebrei era sempre difficile, specialmente nei paesi europei dove il cristianesimo era dominante. Le condizioni socio-politiche delle comunità ebraiche erano spesso soggette al favore del sovrano o del principe locale di turno.

La concessione del permesso di abitare e di lavorare in un posto era perlopiù subordinata al pagamento di pesanti imposte collettive o capitali e accompagnata da restrizioni più o meno gravose e alcuni segni di distinzione esteriori, come la famosa rondella gialla sull’abito.

Qualsiasi caso di delazione quindi sarebbe risultato assai dannoso per lo status economico dell’ebreo e l’avrebbe messo in cattiva luce dinanzi al cristiano. Sono numerosi i casi di ebrei costretti a fuggire dal luogo di dimora verso un posto sicuro, dopo esser stati denunciati.

Il rabbino ed eminente talmudista Isaac ben Jacob Alfasi (1013-1103) lasciò Fez all’età di 75 anni per rifugiarsi in Spagna nel 1088 in seguito alla denuncia, per motivi ignoti, sporta da Halfah e Hayyim, padre e figlio; Alfasi visse a Cordova e a Granada e morì a Lucena. Moses ha-Parnas, altra vittima di delazione, dovette lasciare la francese Narbona per rifugiarsi a Estella in Navarra nel 1120 circa.12

Nel corso del medioevo il responsabile di una comunità, o il parnās, o il rabbino capo, assumevano sempre più spesso la responsabilità di creare un sistema difensivo.

Nella pratica reale, il ricorso alla pena capitale fu raro, dopo l’abolizione del Sanhedrin (il Sinedrio, massima autorità giudiziaria dell’ebraismo palestinese). È il caso di Toledo dove, nel XIV secolo, il tribunale rabbinico giudicava reati penali avocando a sé le competenze dell’antico Sanhedrin, complice l’alta percentuale ebraica della popolazione cittadina.

Per aversi un caso di delazione da esaminare con i princìpi imposti per combatterlo, si specificava che esso doveva necessariamente aver messo in pericolo la comunità e la sua autonomia.

Il giurconsulto Rashi spiegava che il delatore era colui che minacciava la proprietà dell’ebreo a vantaggio di un gōy, il che succedeva spesso nel Medio Evo.

A volte si sottometteva alle stesse pene riservate ai delatori le persone ebree che s’erano rivolte ai tribunali cristiani o laici per dirimere controversie riservate tradizionalmente ai tribunali rabbinici.

In altri casi il delatore informava l’autorità aiutandola a sorvegliare la vita religiosa ebraica. Nicholas Donin, un apostata francese, rivelò all’episcopato quali fossero i brani anticristiani contenuti nel Talmūd. Questo episodio fu all’origine della disputa di Parigi conclusasi con il rogo di volumi del Talmūd.

Un altro esempio è nell’Inghilterra del 1250, prima dell’espulsione degli ebrei dal suolo britannico: il re Enrico III mandò dei rappresentanti per verificare la reale consistenza delle proprietà ebraiche per determinare l’ammontare delle tasse dovute all’erario.

Un ebreo accompagnava questi delegati, con il compito di denunciare coloro che avebbero dovuto pagare il doppio di quanto invece devolvevano. Egli minacciava i proprietari ebrei di svelare quale fosse la loro vera ricchezza.

A metà del XVI secolo nella penisola italiana si ebbero alcuni roghi del Talmūd, causati dall’attività calunniatrice di ebrei che s’erano rivolti a papa Giulio III per notificargli presunte affermazioni anticristiane.

Sempre in Italia ‘Obadiah da Bertinoro tramandò che nella comunità israelitica di Palermo esistevano molti calunniatori che affermavano ogni cosa falsa fosse possibile per screditare i nemici e che facevano del tradimento il proprio ideale di vita.

Le corti ebraiche cercavano di reprimere il fenomeno che chiaramente era pregiudizievole per l’unità e la salvezza degli ebrei. Infatti capitò che re o governatori volessero espellere tutti gli ebrei dal luogo a causa di notizie false sul conto di alcuni di loro.

Tornando all’ebraismo spagnolo, nel 1375 sei saggi ebrei, tra cui Isaac ben Sheshet e suo figlio Yehudah, Nissim Gerondi e Hasdai Crescas, furono accusati di reati in seguito a una denuncia e imprigionati.

Vittima incolpevole della delazione, ben Sheshet (1326-1408) approntò in seguito un codice di procedura per i soli processi per delazione. I punti di questo codice erano cinque e consistevano nell’appurare la verità di quanto denunciato.

Il delatore doveva essere interrogato e sottoscrivere quello che avesse affermato. I difensori potevano entrare nella causa dopo gli interrogatori. Gli accusati andavano chiusi in carcere e non potevano uscirne neanche dietro cauzione.

I testimoni dovevano essere convocati senza che fossero presenti gli accusati e anche se il danneggiato dalla delazione fosse incompetente come testimone ciò non inficiava la validità dell’accusa.

Il ben Sheshet dovette riuscire a discolparsi se in seguito venne nominato rabbino di Saragozza. Fu uno di quegli ebrei che, a causa dell’ondata di persecuzione antigiudaica del 1390-1391, fuggì dalla Spagna verso il Nordafrica, morendovi e diventando un santo venerato dall’ebraismo algerino.

Con l’istituzione del tribunale inquisitorio in Spagna, si aggravò il fenomeno della delazione. Dopo l’espulsione degli ebrei dal territorio spagnolo, deciso dai Re Cattolici Isabella di Castiglia e Ferdinando d’Aragona, nel paese ufficialmente non esistevano più ebrei.

Ma moltissimi invece erano i marrani, o anūsīm, che avevano adottato una religione sincretica fatta di cristianesimo esteriore e giudaismo nascosto.

Il ricco commerciante sivigliano Diego de Susán si pose a capo dei conversos per resistere alle angherie dell’inquisizione, ma disgraziatamente sua figlia Susana riferì dell’attività del padre al suo amante cristiano, il quale andò prontamente a informare l’inquisizione.

Iniziò così la persecuzione contro Diego de Susán; venne catturato, giudicato e portato a morire sul rogo dell’auto-da-fé. Fuori la città di Siviglia venne eretta una pira permanente e si organizzarono spettacoli popolari durante i quali i marrani accusati di praticare i rituali giudaici venivano arsi vivi sul quemadero dopo sommari e iniqui processi; i loro beni venivano invariabilmente destinati al vorace erario reale.13

Non si placò subito l’eco di questo episodio: la figlia di de Susán (detta ‘hermosa fembra’) venne catturata per ordine del rabbino di Tiberiade e rinchiusa in un convento.

Fuggitane, si dette al meretricio e la via di Siviglia dove esercitava la sua nuova professione fu chiamata calle de la Muerte a ricordo del suo tradimento verso il padre e i marrani.

Secondo un’altra versione della vicenda, la donna fu costretta a convivere con uno speziere e richiese nel testamento di murare il proprio teschio nella casa a eterno castigo e ricordo delle scelleratezze compiute.

Alcuni ecclesiastici spagnoli erano di origine ebraica e, per zelo religioso o per mostrarsi deferenti verso le autorità vescovili, si impegnavano nella denuncia di marrani, sfruttando le proprie conoscenze della religione ebraica.

Questa forma di delazione risultò dolorosa e riuscì a incutere un vero terrore tra chi desiderava seguire il giudaismo, di nascosto e senza farsi coinvolgere dal cristianesimo imposto con la forza.

La mentalità inquisitoria inquadrava il giudaizzante eretico come una minaccia alla stabilità della Chiesa dal suo interno e non l’ebreo infedele che si proclamava estraneo al cristianesimo.

Il frate francescano Alonso de Espina, di origine ebraica, si accaniva dal pulpito contro gli ex correligionari accusati di aver tradito il patto battesimale. Autore del “Fortalitium fidei contra Judaeos, Sarracenos aliosque christianae fidei inimicos”, Espina chiedeva la costituzione di un organismo che giudicasse i casi di eresia cattolica.

Nel 1460 un altro frate invocava l’espulsione dei suoi ex confratelli dalla Spagna ad imitazione dell’editto con cui si espulsero nel 1290 gli ebrei dall’Inghilterra: l’economia inglese apparentemente non s’era indebolita dopo la cacciata degli ebrei.

Come pretesto egli addusse un presunto ritrovamento di un grande numero di prepuzi clandestinamente asportati a bambini già battezzati. L’esempio che si riportava di frequente era quello di Pedro de la Caballería, un converso di Saragozza.

Egli ricoprì importanti incarichi nell’esercito e in tribunale; scrisse persino un libello fortemente antigiudaico (“Zelus Christi contra Judaeos, Sarracenos et Infideles” – 1450). Ma con l’amico Abraham di Tudela, questo converso Pedro continuava a parlare ebraico e osservava lo shabbāt, confidando che ogni apparenza di cristiano era frutto del desiderio di salire ad alte cariche statali altrimenti precluse.

Invece venne denunciato, inquisito e condannato in contumacia. Quando don Pedro morì nel 1461, la sua tomba venne profanata per vendetta. I cattivi ebrei divenivano cristiani ancora peggiori… era l’opinione prevalente.

Certamente non erano pochi nel XV secolo a utilizzare le proprie profonde conoscenze del giudaismo per tentare di annientarlo; c’erano anche il Lorqui alias Jerónimo de Santa Fé e Solomon ha-Levi alias Pablo de Santamaría.

In ogni caso neppure i giudaizzanti credevano alla propria conversione, era più forte il comandamento mosaico di non adorare divinità straniere, ‘Non avrai altro Dio all’infuori di me’; i testi giudaici non conoscevano neppure il termine ‘conversione’.

Il tribunale inquisitorio spesso invitava, dietro garanzie di clemenza o di ricompense, il prigioniero a svelare i nomi di altri ebrei o anūsīm. I denunciati erano familiari, amici e conoscenti del delatore.

Nel 1606, il converso Jerónimo Bautista de Mena arrivò a denunciare ben 200 abitanti del proprio paese di Ribadavia (Galizia), ben sapendo che questi erano giudaizzanti con atteggiamenti da cristiani tenuti solo quando uscivano di casa. Costui non aveva scrupolo alcuno: molti denunciati erano suoi familiari.

L’inquisizione condannò quarantadue di loro a varie pene nello stesso auto-da-fé. Ma fu un caso limite. Ancor oggi questo episodio è ricordato dallo spettacolo del Malsín che si tiene nell’ambito de La Festa da Istoria, tipica della cittadina di Ribadavia, in cui essa celebra i fatti salienti della sua storia.

Il termine malsín è chiaramente derivato dall’ebraico malshīn; ancor oggi la Real Academia Española riconosce i termini malsinería, malsindad e il verbo malsinar con il significato di denunciare, spettegolare.

Nel mondo ashkenazita invece sono rimasti celebri i casi di Benyamin Goldberg e Shneur Zalman. Il primo attaccò i tesorieri della comunità di Kletsk accusati di corruzione ma venne giudicato ed esiliato in Siberia. Zalman (1745-1812) era un hassīd di Lyady, leader della comunità dei Haba”d Hassīdīm, i Lubavitch locali, che nel 1798 fu accusato di aver raccolto fondi finanziari per la colonizzazione ebraica in Eretz Yisrā’ēl.

Il governo zarista considerava quest’attività illegale perchè a beneficio di un territorio parte dell’impero ottomano con il quale la Russia era in guerra. Il leader religioso venne incarcerato a San Pietroburgo e liberato dopo 58 giorni. Il giorno della sua liberazione fu proclamato festività.

Il conflitto tra ortodossia rabbinica tradizionale e gli adepti della nuova setta mistica si aggravò e il rabbino Avigdor ben Yosef Hayyim oriundo di Pinsk denunciò nel 1800 Zalman il quale venne riportato a San Pietroburgo. Solo l’ascesa al trono dello zar Alessandro I gli dette la libertà materiale e la possibilità di predicare indisturbato le proprie idee di spiritualità mistica.

La lotta tra giudaismo tradizionale ed ortodosso da una parte e liberi pensatori e adepti dell’Illuminismo ebraico (Haskālāh) causò nette prese di posizione che portarono a denunce nei confronti di altri rabbini.

Nell’Ottocento i maskīlīm (intellettuali della Haskālāh) presero l’abitudine di presentare dei memoranda accusatori alle autorità specificando quali fossero i reati scoperti tra i hassīdīm. Nel 1833 Markl e Bernstein denunciarono dei libri ebraici proibiti e ciò fu all’origine di una campagna di disebraizzazione della stampa in Russia.

Abraham Uri Kowner (oriundo di Vilna) era un critico letterario che non accettava le idee della corrente dei maskīlīm e denunciò Alexander Zederbaum (1816-1893), curatore della rivista ha-Melītz fondata nel 1860, la prima in ebraico nella storia dell’ebraismo russo. L’accusa era incentrata su presunte attività sovversive. Questi era stato il fondatore di altre riviste culturali in russo e yiddish e s’era trasferito a Odessa, allora centro geografico della Haskālāh in Russia.

Sempre nella storia dell’ebraismo russo ha risalto la storia di Jacob Brafman che abiurò il giudaismo e diventò un informatore della corte zarista in Russia. Egli intendeva convincere dell’esistenza d’uno stato ebraico all’interno dell’impero, il che avrebbe messo in pericolo le basi dell’autorità centrale e la continuità della corona zarista. Con il suo libello Kniga Kagala (Libro del Kahal, cioè della comunità ebraica) pubblicato a Vilna nel 1869, Brafman intendeva dimostrare che gli ebrei erano un elemento estraneo che invadeva la vita e la società russe per acquistare posizioni di potere e di controllo.14

Senza dubbio l’operato di Brafman contribuì a peggiorare le condizioni di vita degli ebrei russi, sottoposti a vessazioni e restrizioni di vario tipo, se non a pogrom e spedizioni punitive. Un’assemblea fu convocata dal governatore Kaufman due anni dopo per giudicare Brafman e i membri ebrei dell’assemblea riuscirono a convincere quelli cristiani della falsità delle accuse.

Le misure adottate dalla comunità ebraica per allontanare il pericolo di disgregazione che poteva venire da questi atti furono quasi sempre limitate al bando sociale.

Non esisteva quasi mai il herem proclamato da un giudice o da un responsabile della comunità, ma l’attitudine dei membri della comunità nei confronti dei delatori o dei provocatori diveniva intollerabilmente vessatoria. Il malshīn così si trovava nell’impossibilità di continuare a vivere in mezzo agli altri ebrei e spesso era materialmente costretto a rifugiarsi altrove o, peggio, a cristianizzarsi.

A volte si è saputo di malshīnīm ritrovati cadaveri, annegati in un fiume o uccisi in una foresta, per vendetta. Questo fu il caso di due delatori, trovati morti nel bosco vicino Novaja Ushitsa, in Podolia. Lo scrittore Peretz Smolenskin scrisse il libro Qevūrat Hamōr (Sepoltura di un asino) ispirandosi alle vicende di delatori e denunciati nella città di Shklov.

Nell’Unione Sovietica la delazione diventò un’attività meritoria e incoraggiata dal regime che intendeva conseguire il controllo della vita sociale per uniformarla ai propri princìpi precostituiti.

La delazione fu così una caratteristica comune a molti gruppi sociali, non solo di ebrei, e si applicava specificamente all’ipotesi di reato politico e di opinione. La vita ebraico-sovietica in tal modo si disintegrò finendo per assomigliare a quella delle altre etnie dell’URSS.

Durante la seconda guerra mondiale, nel periodo dell’occupazione tedesca del suolo italiano, alcune migliaia di ebrei vennero rastrellate e portate nei campi di transito e infine trasferite nei lager. Si adottarono vari modi per scoprire dove si nascondessero gli ebrei.

Uno di questi era la delazione. Allettati dalle ricompense (in genere 5.000 lire per un uomo ebreo, la metà per donne e bambini), parteciparono casalinghe, ex concorrenti in affari, ex servitori, commercianti, attivisti del fascio e finanche bambini.

Una donna cristiana denunciò il proprio marito ebreo ma si disperò quando le venne tolto il figlio.15 La figura dell’ebreo traditore di altri ebrei purtroppo fu presente a Roma e pure a Trieste, anche se il triestino Graziadio Mauro Grini era un mischling, un mezzosangue.

Egli era figlio di un sarto ebreo e di una cristiana cieca, entrambi fatti prigionieri con un altro figlio nella Risiera di san Sabba. Grini incassava anche 7.000 lire per ogni ebreo consegnato e aveva aperto un ufficio a Milano. Pare dai racconti dei superstiti che il Grini avesse collaborato nel far deportare 300 ebrei triestini, un centinaio di veneziani, altrettanti padovani e milanesi.16

Recentemente è stato celebrato il sessantenario dell’eccidio delle Fosse Ardeatine (24 marzo 1944) in cui vennero massacrate 335 persone, tra cui 77 ebrei, già rastrellati in un raid nazista nel ghetto romano, segnalati dal questore Pietro Caruso (giustiziato dagli italiani qualche mese dopo).

Non è necessario ripercorrere nei dettagli le cause e lo svolgimento dell’evento. Basti ricordare che i nazisti effettuarono una sanguinosa rappresaglia in risposta all’attentato di via Rasella del giorno precedente organizzato dai partigiani del GAP (Gruppi d’Azione Patriottica, ala militare del Comitato di Liberazione Nazionale), che provocò la morte di 33 reclute e il ferimento di altre 70.

I morti erano parte di un contingente di arruolati del Sud Tirolo, occupato dal Reich l’anno precedente che aveva sospeso l’amministrazione italiana. L’ordine dell’agguato in via Rasella giunse dal comando dei GAP, quindi da Giorgio Amendola. A causa dell’esplosione morirono anche dei civili.

Le regole della rappresaglia tedesca prevedevano dieci persone da fucilare per ogni vittima dell’attentato. Si decise di prelevare dalle carceri un buon numero di antifascisti e di ebrei. Risultarono fucilate altre cinque persone, in più rispetto ai 330 fissati dai nazisti.

Questa differenza fu la base giuridica per processare Herbert Kappler ed Erich Priebke, i cui avvocati asserivano che il loro operato invece era in linea con le regole di condotta bellica convenzionale.

Celeste Di Porto, all’epoca diciottenne, era bella al punto che i familiari la soprannominavano Stella. Venne soprannominata la Pantera Nera: “vendeva” i suoi correligionari ebrei per 5.000 lire l’uno.

Ella aveva perso parecchi parenti, arrestati durante i rastrellamenti dell’ottobre 1943, ma ciò non la smosse dal compito che s’era imposta. In totale denunciò una cinquantina di ebrei. Per indicare ai tedeschi chi fosse ebreo, lei fingeva di salutarli calorosamente per strada.

Gli agenti della Gestapo che la seguivano poterono così fermare e deportare queste persone. Dei 77 morti ebrei alle Fosse Ardeatine, 26 erano stati scelti proprio tra i prigionieri denunciati dalla Pantera Nera. Il più piccolo, Michele Di Veroli aveva quindici anni e morì avendo vicino il padre Attilio.

Il più anziano, Mosè Di Consiglio, aveva 74 anni e perì con altri cinque membri della propria famiglia, tra cui Franco di 17 anni. Il ventiseienne Lazzaro Anticoli, venditore ambulante e pugile ebreo, lasciò un graffito su un muro della cella di Regina Coeli; era stato arrestato quella mattina e scrisse: “Se non arivedo la famija è colpa di quella venduta di Celeste. Arivendicatemi”.17

Il nome di Lazzaro era stato aggiunto alla lista all’ultimo minuto, per rimpiazzare quello del fratello di Celeste. Tra le vittime dell’eccidio delle Fosse Ardeatine però c’erano anche Armando, cugino di Celeste e da lei denunciato, e persino Aldo Finzi, un convertito che era stato sottosegretario agli interni negli anni Venti e quindi un gerarca fascista.18

Il padre di Celeste, per la vergogna, decise di consegnarsi ai nazisti e venne deportato in un campo di concentramento dove morì. Il fratello, salvatosi al posto di Lazzaro Anticoli, si arruolò nella Legione Straniera. Riconosciuta a Napoli dove s’era rifugiata alla fine della guerra, Celeste venne arrestata e condannata a dodici anni di reclusione; ne scontò sette.

Lei si sarebbe giustificata raccontando di esser stata messa ai margini della comunità del ghetto a causa dei suoi comportamenti disinibiti che gli altri ebrei non gradivano. Quindi sembra una vendetta, più o meno inconscia, ma che non giustifica assolutamente le azioni commesse ai danni della propria gente. Dopo essersi pentita dei crimini commessi, Celeste si convertì al cattolicesimo, accentuando la sua estraniazione dall’ebraismo originario.19

Il rastrellamento degli ebrei del ghetto di Roma ha ispirato allo scrittore emiliano Giuseppe Pederiali le pagine di “Stella di Piazza Giudia” (1995), imperniato sulla figura della traditrice ebrea Celeste Di Porto, l’informatrice dei nazisti.

La collaborazione con i tedeschi nella caccia agli ebrei effettuata da Celeste è un altro esempio di delazione ai danni del proprio gruppo religioso di origine; esso è stato però affrontato dagli ebrei in modo diverso da come avveniva nei secoli precedenti, pur essendo molto più grave: i soli strumenti a disposizione sono stati l’emarginazione della donna e l’unanime riprovazione per il suo comportamento.

NOTE:

1  Talmūd, Berākhōt (Benedizioni) – 58a
2 Talmūd, Berākhōt – 58a
3  Vedi il trattato Nedārīm (Voti) – 3a
4  Talmūd, ‘Avōdāh Zārāh (Idolatria) – 26b
5  Trattato ‘Akkū”m we-huqqōtēyhem (Gli idolatri e le loro leggi) – 10.1
6  Talmūd, Baba Kamma (Piccola Porta) – 117a
7  Encyclopaedia Judaica, 1971 : vol IX – p. 1364
8  Trattato Hōvēl ū-Māzzīq 8.9
9  Hōvēl ū-Māzzīq 8.10-11
10  Encyclopaedia Judaica, 1971 : vol IX – p. 1371
11  Encyclopaedia Judaica, 1971 : vol IX – p. 1365-6
12  Encyclopaedia Judaica, 1971 : vol IX – p. 1365
13  Eban, 1971 : 174-5
14  Dubnow, 1991 : 293-5
15  Brizzolari, 1971 : 321-2
16  Zuccotti, 1987 : 208-210
17  Pederiali, 1995 : 10
18  Zuccotti, 1987 : 206
19  Pederiali, 1995 : 183-185

BIBLIOGRAFIA:

– AA.VV., La persecuzione degli ebrei durante il fascismo : le leggi del 1938, Roma, Camera dei Deputati, 1998.
– Amador de los Ríos José, Historia social política y religiosa de los judíos de España y Portugal, Madrid, Aguilar, 1960.
– Bennassar Bartolomé, Storia dell’inquisizione spagnola, Fatti e misfatti della “suprema” dal XV al XIX secolo, Milano, SB Saggi, 2003.
– Bertoldi Silvio, I tedeschi in Italia, Milano, Rizzoli, 1964.
– Brizzolari Carlo, Gli ebrei nella storia di Genova, Genova, Sabatelli, 1971.
– Cohen A., Il Talmud, Laterza, Bari, 1935, rist. anastatica 1991.
– Dubnow Simon, The Informer Jacob Brafman, in History of the Jews in Poland and Russia, 1918, ristampato da Avotaynu, 1991, pp. 293-295.
– Eban Abba, Storia del popolo ebraico, Milano, Mondadori, 1971.
– Encyclopaedia Judaica, vol IX, “Informers”, Jerusalem, Keter Pbl. House, 1971, pp. 1364-1373.
– Pederiali Giuseppe, Stella di Piazza Giudia, Milano, Giunti, 1995.
– Poliakov Léon, Storia dell’antisemitismo – Da Maometto ai marrani, Milano, La Nuova Italia, 1974.
– Roth Cecil, Storia del popolo ebraico, Milano, Silva, 1962.
– Tagliacozzo F. & Migliau B., Gli Ebrei nella storia e nella società contemporanea, Scandicci, La Nuova Italia, 1993.
– The Standard Jewish Encyclopedia, Cecil Roth editor in chief, New York, 1978.
– Zuccotti Susan, L’olocausto in Italia, Milano, Mondadori, 1987.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *